Se ci limitiamo a considerare solo gli aspetti di delusione, rischiamo di trascurare un fenomeno più preoccupante: l’allontanamento dalla politica. Quando una grande percentuale di elettori decide di non votare o di bocciare un referendum, non facendogli raggiungere il quorum, potrebbe manifestare un disinteresse crescente verso le dinamiche politiche. Votare diventa un atto quasi simbolico, privo di significato per molti, che iniziano a vedere la politica come un terreno poco fertile per il cambiamento.
di Piero Mastroiorio —
Negli ultimi anni, il panorama politico italiano ha visto un susseguirsi di appuntamenti elettorali che hanno suscitato ferventi dibattiti e polemiche tra le diverse fazioni. Molte di queste consultazioni ha rivelato un dato allarmante: gli elettori non vanno alle urne. Quale significato nasconde questo dato, apparentemente freddo e arido? Si tratta di una semplice espressione di delusione da parte degli elettori o è un segnale più profondo di un allontanamento dalla politica?

Per comprendere appieno questa situazione, è necessario fare un passo indietro e analizzare il contesto in cui si sono svolti questi referendum. Negli ultimi anni, il popolo italiano ha assistito a una serie di eventi che hanno scosso le fondamenta della democrazia: crisi economiche, scandali politici, movimenti populisti e un’emergente sfiducia nelle istituzioni. Questi fattori hanno contribuito a creare un clima di incertezza e disorientamento, nel quale gli elettori si sentono sempre più disconnessi rispetto al processo decisionale.
Si leggevano, sul campo di battaglia, le lavagne personali di ogni elettore/candidato/supporter, mille spiegazioni per andare o meno a votare, quelle che hanno colpito di più, le più veritiere, forse, “non andare, lo Stato risparmia 2.500.000 di euro ai promotori del referendum”, “non andare, 5 anni sarebbero troppo pochi per regalare una cittadinanza”, “non andare, i promotori vogliono correggere, gli errori fatti, da loro stessi, con leggi sbagliate sul lavoro”, ecc.
A prescindere da tutto e da tutti, l’assenza, del 70% dalle urne referendarie, può essere interpretata, agevolmente, come un chiaro segnale di delusione. Gli elettori, stanchi di promesse non mantenute e di politiche inefficaci, potrebbero aver scelto di non approvare misure che percepivano come inutili o dannose. Le aspettative erano alte, ma la realtà si è rivelata ben diversa. Questo malcontento si riflette nei risultati, dove il 70% degli elettori ha preferito disertare i seggi piuttosto che esprimere il proprio assenso a proposte che apparivano distanti dai loro bisogni reali.
Tuttavia, se ci limitiamo a considerare solo questi aspetti di delusione, rischiamo di trascurare un fenomeno più preoccupante: l’allontanamento dalla politica. Quando una grande percentuale di elettori decide di non votare o di bocciare un referendum non facendogli raggiungere il quorum, potrebbe manifestare un disinteresse crescente verso le dinamiche politiche. Votare diventa un atto quasi simbolico, privo di significato per molti, che iniziano a vedere la politica come un terreno poco fertile per il cambiamento.

Altro aspetto da considerare è il coinvolgimento delle nuove generazioni, che spesso si sente esclusa dal dibattito politico tradizionale. I giovani tendono a essere più propensi a criticare le istituzioni e le modalità con cui vengono prese le decisioni, soprattutto quando queste non rispondono alle loro esigenze e visioni del Mondo. L’apatia politica che emerge può essere alimentata da un sentimento di impotenza, dove i ragazzi percepiscono che, indipendentemente dalla loro partecipazione, nulla cambierà.
È fondamentale anche considerare il modo in cui la comunicazione politica viene gestita. In un’epoca in cui i social media dominano il panorama informativo, il messaggio politico si è frammentato, facendo emergere pratiche tossiche come la disinformazione e le fake news. Confusione, questa, che comporta una maggiore difficoltà per gli elettori nel prendere decisioni informate, generando così ulteriore disillusione. Se un cittadino non riesce a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, come può fidarsi di un referendum o di qualsiasi altra forma di partecipazione democratica?
Da tutto ciò emerge la necessità di un nuovo dialogo tra le istituzioni e i cittadini. Non basta proporre referendum e attendere che la gente risponda, bisogna, in modo fondamentale, costruire un ponte di fiducia. Cioè, ascoltare veramente le istanze dei cittadini, coinvolgerli attivamente nel processo decisionale e garantire che le informazioni siano accessibili e comprensibili. Solo in questo modo sarà possibile rinnovare l’interesse verso la partecipazione politica e combattere le correnti di disaffezione.

In definitiva, il risultato dei referendum, con quel pesante 70% di astensione, non rappresenta solo una cifra statistica, ma un campanello d’allarme. È urgente rispondere a questa situazione in modo costruttivo. Le forze politiche, le istituzioni e la società civile devono unirsi per affrontare la sfida della mobilitazione. Devono ripensare le modalità di coinvolgimento e partecipazione, creando spazi in cui il dialogo possa realmente avvenire e in cui le voci di tutti possano essere ascoltate.
La politica deve recuperare la sua dimensione umana, non limitandosi a essere un’arida successione di votazioni e decisioni. É tempo di tornare a fare della politica un luogo di confronto, di crescita e di costruzione collettiva. Solo superando la delusione e il disinteresse, si potrà dare un nuovo volto alla democrazia italiana, rendendola un reale strumento di cambiamento e partecipazione. Se riuscissimo a farlo, il futuro potrebbe riservarci sorprese inaspettate, trasformando la politica in un ambito dove ogni cittadino si sente parte integrante e attiva nel cambiamento della propria realtà.
Usare trucchetti, come quelli usati dai promotori, per nascondere il vero senso di questi ultimi referendum, non porta da nessuna parte, se non a far formulare all’elettore domande del tipo: quanti soldi ha speso la sinistra con la Cgil, in testa, per questi referendum? Erano soldi destinati alle lotte dei lavoratori? Quanta ipocrisia c’è nei promotori, tutti partiti di sinistra, PD in testa, che prima hanno fatto le leggi sulla precarizzazione del lavoro e poi volevano correggerle attraverso questi ultimi referendum? Vogliamo dire di quelli che, accortisi della sconfitta imminente, hanno creduto bene di usare il genocidio in corso a Gaza, il sabato prima del referendum, manifestando in piazza, usavano ipocritamente la lotta dei palestinesi a fini elettorali? In attesa che si vergognino per gli errori commessi e decidano per una dimissione corale, cosa che è solo utopia sperare, visto, anche, i trascorsi, ci prepariamo per le nuove gestioni di campagne elettorali e con questi chiari di luna, che Dio ci aiuti!

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