L’ultimo rapporto BES relativo agli anni 2010-2020 dell’ISTAT rivela come nell’ultimo anno si sia perso quasi un anno di vita, ci siano sempre più anziani e giovani donne in disagio mentale, si arrivi ad una persona su 10 a non aver avuto accesso alle cure, come ci siano tanti medici, sempre più anziani e pochi infermieri e come, negli anni pre Covid si siano tagliati molti posti letto ad elevata intensità di cura.

di Piero Mastroiorio —

Lo scorso 10 marzo 2021, a dieci anni dall’avvio del progetto, l’ISTAT, Istituto di Statistica Italiano, ha presentato l’ottava edizione del BES, il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile, contenente un sistema di indicatori arricchito di anno in anno per seguire le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la società italiana, negli anni 2010-2020, incluse quelle più recenti determinate dalla pandemia da Covid-19.
Si ferma l’evoluzione positiva della speranza di vita, tanto che il capitolo salute rileva in particolare che l’evoluzione positiva della speranza di vita alla nascita tra il 2010 e il 2019, pur con evidenti disuguaglianze geografiche e di genere, è stata duramente frenata dal Covid-19 che ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nel decennio. A fronte di una stima di circa 0,9 anni perduti complessivamente a livello nazionale che va da 83,2 a 82,3 anni, emerge una forte eterogeneità tra i diversi territori, con uno svuotamento, in termini di anni vissuti, più marcato nelle regioni settentrionali che va da 83,6 a 82,1 anni attesi, rispetto al Centro che va da 83,6 a 83,1 e al Mezzogiorno che va da 82,5 a 82,2.
In particolare, guardando alle singole regioni, nel 2020 il calo atteso più forte nella speranza di vita alla nascita si registra in Lombardia, in cui la mortalità registrata nel corso dell’anno provocherebbe una perdita di circa 2,4 anni che va da 83,7 a 81,2, seguita, in ordine decrescente, dalla Valle d’Aosta con -1,8 anni, quindi va da 82,7 a 80,9, dalle Marche con -1,4 anni, da 84 a 82,6, dal Piemonte con -1,3 anni, da 82,9 a 81,6 e dal Trentino-Alto Adige con -1,3 anni, da 84,1 a 82,8. Riduzioni superiori ad 1 anno verrebbero inoltre registrate anche in Liguria -1,2 anni, da 83,1 a 81,9, Puglia con -1,2 anni da 83,3 a 82,1 ed Emilia-Romagna con -1,2 anni, da 83,6 a 82,4. Lasperanza di vitaalla nascita rimane invece sostanzialmente invariata in Basilicata e Calabria e diminuisce solo lievemente nella maggior parte delle regioni del Mezzogiorno, ad eccezione di Abruzzo e Sardegna, dove si stima un calo intorno ad 1 anno di vita, rispettivamente da 83,4 a 82,4 e da 83,1 a 82,1. È un arretramento non ancora concluso, sottolinea ISTAT, che richiederà tempo per essere pienamente recuperato.

Peggiorano indici di salute mentale: nel 2020 in Italia l’indice assume il valore di 68,8, rispetto al 2019, emergono tendenze differenti in sottogruppi di popolazione. Peggiora la situazione delle persone di 75 anni e più di entrambi i generi e delle persone sole nella fascia di età 55-64, soprattutto al Nord. Peggiora anche tra le giovani donne di 20-24 anni e in alcune regioni come Lombardia, Piemonte e Campania che, insieme al Molise, presentano i valori più bassi.
Cresce lievemente la mortalità infantile, si riduce la mortalità per tumori maligni tra gli adulti e quella per demenze e malattie del sistema nervoso. Il tasso di mortalità infantile nel 2018 è stato pari a 2,9 per 1.000 nati e risulta in lieve aumento rispetto a quanto registrato sia nel 2016 sia nel 2017, pari a 2,8 per 1.000 nati. Per i bambini i valori di mortalità infantile sono più elevati che nelle bambine: 3,1 per 1.000 nati vivi maschi contro i 2,6 delle femmine.
Nell’età compresa tra i 20 ed i 64 anni è particolarmente rilevante la mortalità per tumori maligni, considerata prematura. Nel 2018, il tasso di mortalità per queste patologie è stato pari ad 8,4 per 10.000 residenti, valore che si è progressivamente ridotto negli ultimi anni. Il tasso di mortalità per tumori maligni delle donne nel 2018 si è attestato a 7,6 per 10.000, mentre è salito tra gli uomini al 9,2 per 10.000.
In una popolazione come quella italiana, caratterizzata da una aspettativa di vita molto elevata e quindi da una notevole percentuale di persone anziane, sono molto diffuse patologie come le demenze e le malattie del sistema nervoso per le quali il tasso di mortalità è pari a 33 per 10.000 abitanti. Le donne hanno un tasso di mortalità pari al 31,8, gli uomini pari a 34. Dopo un aumento quasi costante registrato a partire dal 2015, si osserva nel 2018 una lieve riduzione rispetto all’anno precedente. I tassi di mortalità per demenza e per malattie del sistema nervoso più elevati si evidenziano soprattutto al Nord che è pari al 36,1 per 10.000, contro il 31,1 nel Centro e il 29,4 nel Mezzogiorno.

Mortalità evitabile in diminuzione, anche se i dati i dati si fermano al 2018, anno, in cui il tasso standardizzato di mortalità evitabile è risultato pari a 16,8 per 10.000 residenti, con valori più elevati tra gli uomini 22,3 per 10.000 abitanti contro 11,8 delle donne. Nel tempo si è osservata una forte riduzione della mortalità evitabile, il cui tasso standardizzato era pari a 23,5 per 10.000 nel 2005, soprattutto, nella componente prevenibile, passa da 14,8 per 10.000 nel 2005 a 10,4 nel 2018. Tra le principali cause della mortalità evitabile troviamo il tumore al polmone, che nel 2018 ha provocato il decesso di 16.000 persone, di cui 274 sotto i 75 anni, seguito dalle 11.000 cardiopatie ischemiche con 636 decessi e dai 7.000 tumore colon-rettale con 100 decessi, tutte cause di decesso più diffuse tra gli uomini. Tra le donne, invece, la prima causa di mortalità evitabile è il tumore alla mammella seguito dal tumore al polmone e da quello colon-rettale. Sempre di più i malati “multicronici”. Nel 2020 il 48,8% della popolazione di 75 anni e più è multicronica soffre di tre o più patologie croniche o ha gravi limitazioni nel compiere le attività che le persone abitualmente svolgono. Tale quota è più elevata tra chi vive nel Mezzogiorno 56,9% rispetto a 44,6% nel Nord e a 47% nel Centro, tra le donne 55% contro 39,7% degli uomini e raggiunge il 60,7% tra le persone di 85 anni e più rispetto a 39,3% delle persone di 75-79 anni.
Meno sedentari, ma più obesi: nell’ultimo anno, la pandemia in corso e le restrizioni che ne sono conseguite hanno notevolmente inciso sugli stili di vita della popolazione. Le chiusure degli esercizi commerciali e i limiti imposti agli spostamenti, specialmente durante il confinamento, per gli esterofili lockdown, hanno determinato, ad esempio, una diminuzione nella quota di popolazione che ha potuto svolgere attività fisico sportiva di tipo strutturato in palestre e centri sportivi e hanno rimodulato i tempi e i modi della consumazione dei pasti che, molto più spesso di quanto non sia avvenuto nel recente passato, si sono svolti in casa. Nel 2020 la quota di persone sedentarie di 14 anni e più è pari al 33,8%, dato in miglioramento rispetto al 2019. È invece in eccesso di peso il 45,5% delle persone di 18 anni e più, in lieve aumento rispetto all’anno precedente. Un fenomeno apparentemente contraddittorio, ma che l’ISTAT spiega sottolineando che, nel momento delle restrizioni più forti legate alla pandemia, la popolazione ha cercato di mantenersi fisicamente attiva, ma è cresciuto il tempo trascorso a casa in attività sedentarie, sia lavorando sia svolgendo attività del tempo libero. Ciò spiega appunto perché, parallelamente, si è osservato tra la popolazione adulta di 18 anni e più, una quota di persone in eccesso di peso con un lieve aumento del fenomeno. Gli uomini presentano livelli di eccesso di peso superiori alle donne, 54,7% contro il 36,9%, ma è tra queste ultime che nel corso del tempo si registrano gli incrementi maggiori.
Nel 2020 restano stabili i fumatori, il 18,9% della popolazione di 14 anni e più, rispetto all’anno precedente, mentre aumenta il consumo di alcol a rischio, che ha riguardato il 16,8% della popolazione della stessa fascia di età.

Gli indicatori sulla qualità dei servizi sanitari mostrano una riduzione dei posti letto nei reparti a elevata intensità assistenziale tra il 2010 e il 2018 passata da 3,51 per 10.000 abitanti a 3,04 e una crescita costante del tasso di mobilità per motivi di cura dalle regioni meridionali e dal Centro tra il 2010 e il 2019 passata da 9,2 a 10,9 ogni 100 dimissioni di residenti nel Mezzogiorno, da 7,4 a 9 nel Centro. Riguardo ai medici nel 2019 sono circa 241.000, tra specialisti, di base e pediatri di libera scelta, che svolgono la loro attività nel sistema sanitario italiano pubblico e privato, che con quattro medici ogni 1.000 residenti, si colloca ai primi posti in Europa, anche se i medici italiani sono mediamente più “anziani” rispetto ai colleghi di altri Paesi europei, un medico su due ha più di 55 anni. Oltre un terzo dei medici di medicina generale, il 34%, supera la soglia dei 1.500 assistiti nel 2018, quota più che raddoppiata rispetto al 2005, quando era il 15,9%. Aumento, significativo nel corso degli anni su tutto il territorio nazionale, più consistente al Nord tanto da passare dal 17,9% del 2005 al 46,9% del 2018, meno nel Mezzogiorno dove è passato dal 21,3% del 2018 al 16,3% del 2005.La situazione del personale infermieristico non è altrettanto favorevole, infatti l’Italia è agli ultimi posti in Europa per dotazione di infermieri, circa 6 ogni 1.000 residenti.
Nel 2020, un cittadino su 10 ha dichiarato di aver rinunciato, negli ultimi 12 mesi, a prestazioni sanitarie per difficoltà di accesso, pur avendone bisogno. Il forte aumento, passato dal 6,3% del 2019, ad oltre il 50% di chi rinuncia, è fortemente influenzato da motivazioni legate alla pandemia da Covid-19. Le restrizioni imposte per contenere i contagi, il timore di contrarre infezioni, ma soprattutto la chiusura nel periodo del confinamento di molte strutture ambulatoriali, le cui attività sono state dirottate sul contrasto al virus e la sospensione dell’erogazione dei servizi sanitari rinviabili, non ha consentito l’accesso a prestazioni necessarie, accumulando ulteriori ritardi e allungamenti delle liste d’attesa, con un danno in termini di salute pubblica che ancora non è del tutto misurabile. Prima dell’epidemia, l’andamento dell’indicatore aveva fatto registrare un calo in tutto il territorio nazionale, passando dall’8,1% nel 2017 al 6,3% nel 2019. La flessione era stata registrata in tutte le regioni anche se permanevano le note disuguaglianze territoriali a svantaggio del Mezzogiorno che faceva registrare un 7,5% rispetto al 5,1% del Nord nel 2019. Nel 2020, in alcune regioni del Nord, quali Piemonte, Liguria, Lombardia e Emilia-Romagna, la percentuale di quanti hanno dovuto rinunciare a una visita o accertamento è raddoppiata rispetto all’anno precedente; in gran parte dei casi, il motivo della rinuncia indicato è legato all’emergenza pandemica che ha fatto registrare il 58,6% in Lombardia, 57,7% in Liguria, 52,2% in Emilia-Romagna e 48,5% in Piemonte.

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