di Piero Mastroiorio —

Alle domande, che, da sempre, si pongono gli scienziati, prova a rispondere uno studio, “Are foreshocks fore‐shocks?, pubblicato da poco sulla rivista Journal of Geophysical Research, realizzato da un team di ricercatori dell’Università Sapienza di Roma, dell’INGV, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, del CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università di Atene, Davide Zaccagnino, Filippos Vallianatos, Georgios Michas, Luciano Telesca e Carlo Doglioni.

I terremoti, instabilità meccaniche della crosta terrestre, prodotte dal progressivo accumulo di stress nel sottosuolo nel corso dei secoli, in massima parte sono piccoli, di bassa energia, la magnitudo, con la stragrande parte di loro che non evolve in un grande terremoto disastroso.
Da sempre i sismologi dibattono se esistano dei segnali precursori in grado di fornire informazioni circa l’avvicinarsi di un forte terremoto e, quindi, se tanti terremoti di bassa energia possano essere considerati dei premonitori di forti sismi o meno. Per rispondere a queste domande, i ricercatori hanno studiato la sismicità della California degli ultimi trent’anni, combinando dei modelli teorici con analisi statistiche.

una delle mappe della ricerca

La ricerca ha evidenziato come i cosiddetti foreshocks, i terremoti di lieve e moderata entità, che possono precedere i terremoti più violenti, tendano a diffondersi su aree più grandi, con magnitudo a maggiore variabilità e siano più numerosi ed energetici degli sciami, cioè, di quei gruppi di terremoti caratterizzati da magnitudo contenute che non evolvono in un forte terremoto. Al contrario, sciami e foreshocks sono indistinguibili dal punto di vista della durata, dell’intensità, della frequenza degli eventi. I risultati, supportati da test statistici, suggeriscono come, in presenza di gruppi di terremoti numerosi ed estesi su superfici significative, le probabilità che una attività sismica minore possa culminare in un evento maggiore sia più elevata che in altre condizioni.

La ricerca, tentando di spiegare le osservazioni, si spinge anche oltre, formulando l’ipotesi che i volumi di roccia sotto stress inizino progressivamente a destabilizzarsi a vicenda su periodi e aree più o meno estese, producendo clusters di piccoli eventi. Maggiore è l’area su cui avvengono, più alte sono le probabilità che si generi un terremoto in grado di coinvolgere il sistema di faglie instabili nella sua intera estensione: si tratterebbe, dunque, di un meccanismo di feedback a cascata, in cui la storia del rilascio di energia negli eventi precedenti è in grado di determinare i terremoti futuri, al di là delle condizioni di stabilità locale delle faglie.

Se i risultati di questa ricerca fossero confermati, sarebbero limitate le speranze di poter stimare la probabilità di un grande evento sismico a partire dalle caratteristiche della sismicità precedente. Al contrario, si renderebbe necessaria una caratterizzazione dello stato di stabilità dei sistemi di faglie al fine di comprendere quali siano le chances di un piccolo sciame di evolvere in una vera e propria sequenza sismica. A supporto di questa ipotesi vi sono le numerose evidenze di grandi terremoti avvenuti senza essere preceduti da foreshock o in presenza, persino, di una diminuzione dell’attività sismica, come nel caso del terremoto di Amatrice nel 2016 e il fallimento di numerosi test statistici, che ipotizzano i foreshocks comportarsi come precursori in modo affidabile e non sporadicamente. Si potrebbe aggiungere: i risultati della ricerca spingono a superare il concetto di “foreshocks”, per spostare l’attenzione sulle condizioni di stabilità dei volumi rocciosi in cui la sismicità si verifica. 

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