di Piero Mastroiorio —

In un giorno uguale a tanti altri, in cui la vita quotidiana di una cittadina italiana procedeva con il suo consueto ritmo, una giovane ragazza, decise di porre fine alla sua esistenza lanciandosi sotto un treno. Un gesto efferato, che, non solo ha segnato la sua vita, ma ha scosso l’intera comunità, portando alla luce questioni profonde legate alla sociologia e alla psicologia dei giovani.

Non faccio il suo nome, deliberatamente, un suicidio non riguarda maschi o femmine, anche, se, nel caso riguarda una ragazza, come tante altre, che amava la musica e sognava un futuro brillante. Tuttavia, dietro la facciata apparentemente normale, nascondeva un mondo di sofferenza e solitudine, dove le aspettative familiari e le difficoltà nelle relazioni interpersonali avevano lentamente eroso il suo senso di identità, che nessuno sembrava aver notato. Nessuno notò il dolore nascosto dietro il suo sorriso.

La sociologia ci insegna che i fattori sociali possono avere un impatto devastante sulla salute mentale degli individui. La nostra ragazza viveva in una società che spesso ignora le fragilità, un ambiente dove la ricerca della perfezione e l’accettazione sociale diventano imperativi inesorabili. Le persone che la circondavano di affetto non sono riuscite a percepire quanto fosse profondo disagio che la tormentava. In questo contesto, il silenzio diventa un grido assordante e la mancanza di comunicazione può trasformarsi in un abisso incolmabile.

Il giorno della tragedia, la giovane, si era recata alla stazione ferroviaria, luogo di passaggio e di incontri, decise di portare a compimento quell’atto estremo, come se volesse liberarsi non solo dal suo dolore, ma anche da una vita che sentiva come insopportabile. Questo gesto, efferato, non é solo un atto di disperazione, ma, anche, una richiesta di attenzione, che nessuno aveva colto.

Quando la notizia si sparse, la cittadinanza rimase sconvolta. Le persone cominciarono a interrogarsi: “Come è potuto succedere? Cosa avremmo potuto fare per impedirlo? Abbiamo fatto troppo poco?“.
Domande che rispecchiano un bisogno umano di trovare un senso in eventi tragici e inaspettati.

Cominceranno, sicuramente, ad essere organizzati, nella comunità, per affrontare la crisi, il senso di colpa per il nulla aver fatto, incontri nei centri giovanili e nelle scuole, dove psicologi e sociologi si confronteranno con genitori e insegnanti. Si discuterà dell’importanza di osservare attentamente i segnali di disagio e della necessità di costruire spazi di ascolto e di supporto. Cosa verrà mantenuto dei buoni proponimenti?

Intanto la nostra povera ragazza é morta e come sappiamo bene, gli eventi drammatici, spesso, fungono da catalizzatori per il cambiamento, rivelando vulnerabilità, che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. Si moltiplicheranno, le campagne di sensibilizzazione, incoraggiando i giovani a condividere le proprie esperienze e a cercare aiuto. Le scuole implementarono programmi anti-bullismo, mentre le famiglie cominciarono a dedicare maggiore attenzione al benessere emotivo dei propri figli.

Basteranno i buoni proponimenti? Il tempo ci darà la risposta.

Dal punto di vista psicologico, il suicidio mette in evidenza l’urgenza di affrontare temi delicati come la depressione, l’ansia e il senso di alienazione. È fondamentale riconoscere che i giovani, spesso, si sentono intrappolati in una rete di aspettative e pressioni, che possono portarli a una spirale di isolamento e ritiro sociale. La mancanza di strumenti adeguati per gestire queste emozioni può sfociare in comportamenti autolesionistici.

L’atto della nostra ragazza non è stato solo una scelta individuale, ma un riflesso delle dinamiche più ampie della società contemporanea. I social media, ad esempio, giocano un ruolo cruciale nella vita dei giovani, contribuendo a creare una realtà distorta in cui il confronto e il giudizio sono all’ordine del giorno. La pressione di apparire perfetti online può aggravare i sentimenti di inadeguatezza e solitudine.

Dopo la tragedia, la comunità si impegnerà a ricostruire un futuro più attento alle fragilità dei giovani? Saranno istituiti gruppi di supporto, laboratori di arte e creatività, per favorire l’espressione emotiva? Saranno creati eventi di sensibilizzazione sulla salute mentale? La reazione collettiva sarà un tentativo di trasformare il dolore in un’opportunità per migliorare l’ascolto e la comprensione tra generazioni? Si formeranno gruppi di volontariato capaci di lavorare instancabilmente per promuovere il benessere giovanile? Le storie di coloro che avevano attraversato momenti di difficoltà saranno condivise apertamente, abbattendo il muro del silenzio e della stigmatizzazione? La narrazione del dolore diventerà uno strumento di potere, in grado di unire e di dare voce a chi si sente invisibile?

Al momento, non abbiamo elementi concreti, per dare risposte. Attendiamo le mosse delle Istituzioni, piuttosto assenti nella gestione del disagio della nostra povera ragazza, che ha lasciato un’impronta indelebile nella sua comunità, spingendo tutti a riflettere sulle complesse interazioni tra sociologia e psicologia. Sul senso di impotenza lasciato in tutti, dove é fondamentale non sottovalutare i segnali di disagio e adottare un approccio proattivo nella cura della salute mentale. Solo così sarà possibile trasformare il dolore in speranza, in un ambiente dove ogni giovane possa sentirsi visto, ascoltato e supportato.

La tragedia di San Severo, che potrebbe essere uguale a mille altre storie di ragazzi e ragazze, non deve essere dimenticata, ma deve servire da monito per costruire una società più empatica, in grado di accogliere le fragilità altrui e di fornire le risorse necessarie per affrontare le tempeste della vita. In un Mondo che corre veloce, velocissimo, è tempo di fermarsi, ascoltare e comprendere, affinché, simili tragedie non abbiano più a verificarsi. Non è giusto che una ragazza, un ragazzo, più in generale, una persona, muoia perché nessuno ascolta, interviene e mette in sicurezza chi può essere aiutato. 

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