di Piero Mastroiorio —

In un’epoca in cui le informazioni viaggiano a velocità supersonica e il ruolo del giornalista si fa sempre più complesso, la questione della libertà di espressione nei contesti di guerra assume una dimensione cruciale: i giornalisti, spesso considerati i testimoni oculari degli eventi più drammatici e devastanti, si trovano ad affrontare una sfida continua, traducibile in una domanda, come mantenere l’integrità della propria voce e del proprio lavoro, quando la verità può essere manipolata, censurata o, nei casi peggiori, punita con la forza?

La risposta alla domanda, che mi sono posto moltissime volte, non sono in grado di darla, adesso ancora di più, visto il nuovo pacchetto di imposizioni di natura censoria emanato da IDFForze di Difesa Israeliane, un obbligo che impone l’approvazione preventiva per qualsiasi notizia relativa al luogo in cui missili o droni hanno colpito, indipendentemente dalla piattaforma o dal luogo di pubblicazione.

Secondo la direttiva, che va applica sia alla stampa nazionale che a quella internazionale, online e offline, chiunque «stampi o pubblichi materiale stampato o una pubblicazione riguardante la posizione di un attacco o di un impatto da parte di materiale bellico nemico, inclusi missili di qualsiasi tipo e UAV (droni), nei media o online (inclusi social media, blog, chat, ecc.)», dal 18 giugno 2025, dovrà sottoporre tale materiale alla censura militare per l’approvazione prima della sua diffusione.

Il Generale di Brigata Kobi Mandelblit, capo della censura militare israeliana, presentando la misura come una questione di sicurezza nazionale, ha dichiarato, secondo quanto riportato dal ‘Jerusalem Post’: «la stampa o la pubblicazione di qualsiasi contenuto che non sia stato sottoposto al censore, o che sia stato sottoposto senza che siano ancora state ricevute le istruzioni, o le cui istruzioni siano state ricevute ma non rispettate… Violare l’ordine potrebbe danneggiare gravemente la sicurezza dello Stato», avvertendo che i trasgressori saranno perseguiti penalmente.

La libertà di espressione è un principio fondamentale di qualsiasi democrazia sana e funzionante, ma, quando si parla di conflitti armati, questo concetto viene messo a dura prova, superando la stessa definizione delle aree di guerra, che le vuole zone ad alto rischio, non solo per i soldati coinvolti, ma, anche, per i giornalisti che osano avventurarsi al loro interno.
Uno dei più grandi paradossi del giornalismo di guerra è che, mentre i giornalisti cercano di raccontare la verità, spesso diventano essi stessi parte del conflitto.

I governi cercano di esercitare un controllo rigoroso sull’informazione, limitando le voci critiche e silenziando coloro che osano raccontare una narrazione diversa da quella ufficiale. Non è raro che le loro parole vengano utilizzate come strumenti di propaganda, sia dalle fazioni in lotta, sia dai governi, che cercano di giustificare le proprie azioni. Questo fenomeno solleva interrogativi etici fondamentali: come possono i giornalisti “navigare” tra la necessità di informare e la pressione a conformarsi a narrazioni predefinite e, soprattutto, a quale costo?

Alla domanda si potrebbe rispondere con la minaccia alla sicurezza fisica dei giornalisti e gli attacchi a reporter nei teatri di guerra che non sono un evento isolato, ma parte di un trend preoccupante. Nel conflitto in corso nella striscia di Gaza, dall’ottobre 2024, sono stati uccisi 230 giornalisti e secondo le statistiche, migliaia di giornalisti sono stati uccisi, sequestrati o costretti al silenzio negli ultimi decenni. In molti casi, ciò accade proprio mentre stanno cercando di svolgere il loro lavoro, documentando atrocità e guerre. La paura della repressione e della violenza può spingere i giornalisti ad autocensurarsi, limitando la portata delle loro indagini e relazioni.

La libertà d’informazione è essenziale non solo per la salute della società civile, ma, anche, per garantire il diritto dei cittadini di essere informati riguardo agli eventi e ai conflitti che li riguardano. Quando i giornalisti sono silenziati, si crea un vuoto di potere che può portare a scenari drammatici, dove le verità scomode restano sconosciute, sepolte, insieme alle vittime.

Social media e blog consentono a molti di diffondere informazioni senza il filtro dei media tradizionali, offrendo così una maggiore varietà di voci e racconti. Questa democratizzazione dell’informazione comporta alcuni rischi, come la diffusione di notizie false. In un mondo in cui chiunque può diventare un “giornalista“, la distinzione tra reportage accurato e propaganda diventa sempre più sfumata, complicando ulteriormente la già difficile missione dei professionisti del settore.

In alcuni casi, i giornalisti hanno trovato modi creativi per aggirare le restrizioni e riportare notizie credibili, come l’uso di fonti anonime, l’analisi di dati e le testimonianze di persone comuni, diventati strumenti essenziali per costruire una narrazione più completa. Metodo, questo, non privo di rischi, perché la raccolta di informazioni in situazioni di guerra richiede una grande perizia e, nonostante gli sforzi, i giornalisti possono trovarsi esposti a conseguenze legali o minacce fisiche.

La comunità internazionale gioca un ruolo cruciale nella difesa della libertà di espressione, grazie ad organizzazioni come Reporters Sans Frontières e Amnesty International, che si battono, per proteggere i diritti dei giornalisti in tutto il Mondo, attraverso campagne di sensibilizzazione e supporto legale.

La libertà di espressione nel lavoro dei giornalisti che commentano guerre è un tema di straordinaria importanza e complessità, perché, mentre svolgono il loro ruolo di custodi della verità, è fondamentale sostenere le loro battaglie e riconoscere il valore imprescindibile delle loro voci. Senza giornalisti liberi e responsabili, il nostro diritto all’informazione e alla conoscenza resta minacciato, mettendo a rischio non solo la nostra comprensione dei conflitti, ma anche i principi fondamentali su cui si fondano le società democratiche. La lotta per la libertà di espressione è una lotta per la dignità umana e per un futuro più giusto e equo per tutti.

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