di Luisa B. D’Errico —

Un giorno, doveva essere stata una giovane carina. Durante la metà del 1900, era al servizio di una preside come domestica, laboriosa e molto apprezzata. Per questa ragione, le offrirono di andare a lavorare presso una facoltosa famiglia, dove avrebbe migliorato notevolmente la sua condizione, immaginando di poter guadagnare maggior stima ed esercitare sui suoi congiunti un certo prestigio.
Da quel giorno, non si seppe mai cosa avvenne, la fortuna le voltò le spalle e si ritrovò a soddisfare ben altre richieste e non di certo riassettare i letti, sbrigare faccende domestiche, andare a fare acquisti per il pranzo. Divenne la Ninetta più conosciuta della città!

Il tempo passò, sfiorì e si ritrovò per strada a vivere di stenti, di abusi e di soprusi, sopravvivendo grazie all’aiuto delle suore, di qualche “vecchio amico”, di qualche passante di buon cuore.
Io me la ricordo, Ninetta, olivastra di carnagione, con gli occhi nocciola, stretti. Guardava di traverso. Aveva la mascella serrata e l’espressione indurita dalla vita. Le guance scavate. Il naso lungo e largo alla base. Le labbra asimmetriche, sottili e larghe. Zigomi sporgenti e mento volitivo. I capelli rossastri, ondulati, disordinati e corti fino al collo. Aveva tutti i denti, un po’ ingialliti dal fumo.

Nonostante vestisse con pellicce rimediate e improbabili minigonne, aveva comunque un portamento eretto anche quando si trascinava i bustoni per dormire sulle panche. Portava i sandali pure in inverno, che calzava con i calzini al polpaccio. Era una clochard, una barbona e la sua dimora era una panchina metallica, in Piazza Incoronazione, nei pressi di una cabina telefonica, dove, trovava riparo, quando pioveva.
Da lei io stavo alla larga, come si fa quando si è sospettosi delle cose che non si conoscono.
Gli uomini le passavano accanto silenziosi e rispettosi.
Le donne le lanciavano sorrisi di commiserazione quando la incrociavano.
I ragazzini, come fanno i ragazzini di tutto il Mondo con i più deboli, la deridevano, le lanciavano sassi e l’appellavano canzonandola: ”Ninetta, Ninetta!”, mentre lei si proteggeva, con un braccio, il capo chino e gli occhi chiusi. Era mite, composta, non si alterava mai. Accettava lo scherno come se fosse l’occasione per espiare le sue colpe. Si offriva al dolore, per il dolore che aveva arrecato.
Non sapeva di essere lei la vittima.

una foto molto datata di Piazza Incoronazione a San Severo

Per la prima volta, la guardai negli occhi, quando, con voce stridula e incerta, mi chiese una sigaretta e, poiché non ne avevo, le potei dare solo cento lire, che lei, immediatamente, mi strappò dalle mani, temendo che potessi ripensarci.
Frequentavo l’ultimo anno del liceo, quando un giorno vidi mia madre preparare due grandi buste in cui c’erano stivali, scarpe, abiti da cerimonia e una giacca di pelliccia. Era tutto il mio mondo: l’abbigliamento che indossavo per giocare da bambina. Mi disse: “Aiutami a fare una consegna!”.
Caricammo in auto le due buste e partimmo.
Ci fermammo in Piazza Incoronazione e con le due buste ci incamminammo verso Ninetta.
Quando le consegnammo i due sacchi e lei vide che c’era il necessario per superare l’inverno, cominciò a ringraziare quasi a cantilena.
Mia madre le disse: “Eri così brava. Che hai fatto!?” Lei rispose: “Non sono stata io, ma la mia testa!
Successivamente, ogni volta che la ritrovavo in piazza Ninetta ci teneva a indicarmi la pelliccia che indossava e mi sorrideva.
Sulla sua fine, tante storie si sono raccontate.
La più accreditata è che fu investita da un’auto con tanta violenza che i vestiti le furono strappati via.
Io non credo che fosse stata la sua testa a distruggere i suoi progetti di vita.

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